Nei primi anni Duemila, dopo aver annunciato il progetto affidandolo alle pagine della sua rivista FMR, l’editore dà seguito all’idea di realizzare un luogo che racconti il suo lavoro e la sua visione, che lo rappresenti e gli sopravviva. “Ci saranno rovine e bambù”, anticipa ai lettori, “all’ombra dei quali nasceranno un grande labirinto, una biblioteca e tante altre cose superflue”.
Si tratta dunque di un luogo multiforme: è un laboratorio editoriale, è un museo che ospita centinaia di opere d’arte datate dal Rinascimento al Novecento e spazi per mostre temporanee eclettiche e sorprendenti, come anche spazi per feste ed eventi. Il tutto circondato da uno straordinario labirinto di bambù: era il 1977 quando Ricci promise all’amico e collaboratore Jorge Luis Borges, scrittore argentino che più di chiunque altro seppe cogliere e raccontare l’essenza del segno labirintico, che un giorno avrebbe costruito il dedalo più grande del mondo proprio in quei campi in cui i due erano soliti passeggiare.
A conferire un principio di concretezza a quelle parole, rimaste a lungo una silenziosa utopia, fu l’incontro, avvenuto negli anni Novanta, con il giovane studente torinese di architettura Davide Dutto, che propose all’editore un progetto affascinante, accettato con entusiasmo. L’idea consisteva nel ricostruire tramite software ai tempi innovativi la mitica Isola di Citera e le sue architetture, così come erano state descritte nel più prezioso fra i libri a stampa, l’Hypnerotomachia Poliphili. Le immagini così ottenute ricordarono a Ricci il labirinto, e l’intenzione di costruirne uno; domandò dunque l’aiuto di Dutto e insieme iniziarono a sviluppare i primi progetti del grande parco.
Il percorso che muove verso il centro è tipico dei labirinti classici, di cui quello cretese a sette spire è l’esempio più noto, mentre la pianta quadrata dell’area percorribile rimanda ai labirinti romani. Il perimetro è a forma di stella, la Forma Urbis delle città rinascimentali che compare per la prima volta nel Trattato di Architettura del Filarete.
La forma a stella fu adottata da Vespasiano Gonzaga a Sabbioneta, dalla Repubblica Veneta a Palmanova in Friuli e dal Vauban nelle sue architetture militari.
È guardando a questa tradizione che Ricci immagina la sua “cittadella”, il suo personale borgo della cultura con la sua piazza e la sua chiesa, protetto dalle impenetrabili mura di bambù.
All’interno del parco, bivi e vicoli ciechi disorientano il visitatore, chiamato a scegliere la via giusta da percorrere: come accadeva nei giardini-labirinto del Rinascimento, anche nel Labirinto della Masone si è invitati a provare il piacere di smarrirsi tra la vegetazione.
L’uscita, il cuore del labirinto, coincide con la Piramide, una piccola cappella che evoca con la sua presenza l’antico legame tra Labirinto e Fede.
Interrogato sulle ragioni di una scelta così inusuale per la realizzazione di un labirinto vegetale, Ricci raccontava di come l’amore per questa pianta fosse nato quando un giardiniere giapponese gli suggerì di arricchire il giardino della sua dimora milanese con un boschetto di bambù.
Entusiasta del risultato, Ricci decise di ripetere l’esperimento e di piantare un giardino analogo sulle terre che circondavano la sua casa di campagna, a Fontanellato in provincia di Parma.
A differenza del bosso, pianta tradizionalmente impiegata nella realizzazione di giardini- labirinto, il bambù (appartenente alla famiglia delle graminacee) cresce e si propaga ad una velocità sorprendente. In più non si ammala, non perde le foglie e a causa della sua impaziente crescita assorbe grandi quantità di anidride carbonica, lasciando a noi l’ossigeno.
Un repertorio di forme sospese, perché mai realizzate, ma che continua proprio per questo a proporsi come modello di un’architettura nuova, erede consapevole di un lungo passato.
Gli edifici del Labirinto della Masone sono stati progettati da Pier Carlo Bontempi, architetto di Parma noto e attivo su un piano internazionale che con Franco Maria Ricci condivide l’amore per le forme classiche, per una tradizione italiana ed europea fatta di opere concluse ma anche di visioni e fantasie rimaste sospese e come in attesa.
Sia pure in tono minore, Bontempi ha concepito le architetture del complesso avendo presenti le utopie dei grandi architetti del periodo della Rivoluzione Francese: Boullée, Ledoux, Lequeu e l’italiano Antolini, autore di un visionario progetto del Foro Bonaparte a Milano (mai eseguito ma giunto sino a noi sotto forma di un volume di Bodoni).
Tutti gli edifici sono realizzati in mattoni a mano, materiale da costruzione tipico del territorio padano, in modo da creare armonia tra le strutture architettoniche e il paesaggio circostante.